lunedì 23 ottobre 2017

Aneddotica popolare

C'è una vasta aura di mistero e terrore che aleggia sull'esame di stato da avvocato - tanto per lo scritto quanto per l'orale - e anno dopo anno non fa che rinfoltirsi con nuovi e succosi racconti che giungono dai reduci. Volendo, si potrebbe raccoglierli in una simpatica antologia popolare; sarei felice se all'interno di un tale progetto figurasse anche la mia esperienza personale, che ho deciso di raccontare perché sarebbe comica, se non fosse vera.
Volendo evitare un piagnisteo infinito sulle varie ansie che attanagliano i candidati, mi limito a spiegare, per chi non lo sapesse, cosa significa essere bocciati all'orale: di lì a poco, intorno a metà dicembre, bisognerà sostenere altri tre giorni di prova scritta da sette ore al giorno di solo esame, in un capannone/palazzetto dello sport/maxi aula, insieme ad altre mille persone. Per farlo occorre spendere diverse centinaia di euri in codici, i quali si sa devono essere aggiornati e mica si può farlo con quello dell'anno prima, perché chissà quali sentenze sono uscite nel frattempo; una volta terminato non è finita davvero, visto che i risultati arriveranno a distanza di sei mesi e solo allora i fortunati potranno iniziare a studiare nuovamente per l'orale.
Come vedete, non passarlo è una discreta mazzata, non fosse altro che per i soldi da spendere.
Carico di tensione, ogni candidato si siede all'orale dinanzi ad una commissione che lo interroga su sei materie, di cui una è obbligatoria - deontologia forense - e le altre cinque sono a scelta. Anche qui, giusto per dare un'idea, è come se in una sola volta si sostenessero tutti gli esami di una sessione universitaria. Intendiamoci, non infattibile, ma neppure da prender sotto gamba.
Orbene, il candidato è spesso una persona di giovane età che sente sulle proprie spalle il peso del proprio futuro, di un anno intero che può cambiare in meglio o in peggio nel giro di un'oretta scarsa. La prima cosa che deve fare è non irritare la commissione.
Non ci sono riuscito.
O meglio.
Il presidente comincia con una domanda di deontologia poco chiara e dalla mia faccia capisce subito che non ho mai sentito parlare della questione. Spoiler: siccome mi citerà un articolo del codice deontologico contenente la risposta, lo andrò a rileggere e scoprirò che la domanda non è per niente centrata, anzi parla proprio di altro.
L'esame tutto sommato procede, in un modo o nell'altro giungo alla quarta materia. Mentre la commissaria mi sta facendo una domanda, scorgo con la coda dell'occhio il presidente che si sporge verso un'altra commissaria, seduta al suo fianco, e credendo di bisbigliare chiede: "Ma è modo di sedersi?"
Mi osservo e noto di avere una gamba accavallata sull'altra. Un'eco che arriva flebile, da lontanissimo, da un recondito meandro della mia vita, suggerisce di disaccavallarle, perché è un gesto maleducato. Prontamente mi siedo come se mi avessero infilato un bastone nel retto e il presidente commenta, sempre con la commissaria: "Ah, mi ha sentito. Va beh, ora gliela faccio pagare".
Ha proprio detto gliela faccio pagare. Un linguaggio che si addice più ad un ambiente di malaffare che a quello forense, ma si vede che è quanto bisogna aspettarsi dalla cosiddetta vita vera, al netto delle belle parole con le quali ci ammansisce il codice deontologico.
Il destino ha voluto che la successiva domanda dovesse farmela proprio lui, così riesce a mettermi in difficoltà. Arrabattando qualche parola per evitare la scena muta, utilizzo una locuzione che ho letto parecchie volte sui manuali.
Apriti cielo.
Il commissario mi chiede cosa significhi, con l'aria schifata di chi è costretto a perdere il proprio tempo con dei sottosviluppati; gli faccio presente che non è un'espressione da me coniata, ma che ha una sua precisa ragion d'essere. Per fortuna in quel momento una commissaria decide di intervenire e prendere le mie parti, confermando la mia tesi: a quel punto, improvvisamente, non prima di aver messo su la faccia disgustata di chi trova un dread nella minestra, decide che può accontentarsi.
L'esame prosegue, anzi termina di lì a breve, dopodiché i commissari si ritirano in una stanzetta per deliberare sull'eventuale superamento.
Nei minuti successivi, convinto che il mio destino fosse segnato, non sono riuscito ad essere triste. Ero furibondo, amareggiato, frustrato, desideroso solamente di dire in faccia al presidente cosa pensavo di lui. Ho preparato un discorsetto rapido ma incisivo, da fare ad alta voce in modo che sentissero bene commissione e pubblico presente. Poi l'ho visto uscire con un'espressione funerea sul volto, come se avesse appena ricevuto una brutta notizia che lo riguardava personalmente; lì ho capito che l'avrei sfangata.
Sono passati alcuni giorni dall'esame e continuo a chiedermi: è giusto che i candidati siano giudicati per il modo in cui si siedono e non per la loro preparazione? Fino a che punto bisogna sempre e comunque incassare, chinare la testa dinanzi a chi ha una posizione di potere? Quanti soprusi, mancanze di rispetto dovremo tollerare ancora? Ma soprattutto: nel caso in cui uno cercasse una sorta di giustizia, nel senso più lato possibile, ci sarebbe qualcuno disposto ad ascoltarlo?