Per inciso, non è che sia un'anteprima o un inedito, è una storia vecchia di oltre vent'anni già romanzata in tutte le salse, della quale offro solamente una banale divulgazione.
In una calda sera di giugno del 1997, Michael Jordan è a Salt Lake City con i suoi Chicago Bulls per giocare gara 5 delle finali NBA contro gli Utah Jazz; il punteggio della serie è sul 2-2, per cui se gli avversari sfruttassero a dovere il fattore campo si porterebbero ad una sola vittoria dal titolo. Le persone normali sarebbero divorate dall'ansia per la partita dell'indomani, Michael Jordan invece ordina una pizza in camera. Visto che lui è americano, con ogni probabilità l'avrà chiesta con peperoni, ketchup e ananas, tanto che durante la notte è preda di un violentissimo attacco influenzale.
Quando il medico della squadra lo trova racimolato sul pavimento, si rende subito conto che non potrà mai scendere in campo di lì a sedici ore. Invece, con sommo stupore di tutti, un'ora prima della partita entra sul parquet per il riscaldamento.
Nonostante sia in condizioni psicofisiche pietoso, Michelone nostro gioca una partita devastante.
Gara 5 delle finali del 1997 passerà alla storia come The Flu Game, una di quelle che faranno transitare Jordan direttamente nella leggenda senza manco transitare per il mito.
Legittimamente, giunti a questo punto, qualcuno potrebbe chiedersi: per qual motivo ce lo sta raccontando?
Perché, per una volta, non seguirò il precetto che mi ripeteva ossessivamente mia nonna, secondo il quale "chi si loda s'imbroda".
Qualche tempo fa ho dovuto sostenere un importante e complesso esame scritto spalmato su tre giorni, durante i quali ho avuto un simpatico raffreddore condito da una gioiosa febbriciattola. La mattina dell'ultima prova, ça va sans dire la più importante ed ostica, non sarei uscito dal letto neanche per accompagnare Scarlett Johansson a scegliere i mobili della cucina della nostra casa al mare, figurarsi se mi sarei andato a cacciare in un posto con altri mille magonati a riempire fogli protocollo di scarabocchi. Giammai.
Eppure, s'aveva da fare.
Sotto la doccia, cercando di riprendermi, ho realizzato di essere con le spalle al muro. Due strade davanti a me: la prima era cedere alla debolezza e farmi riempire di cartoni, l'altra provare a lottare e cercare perlomeno di sbucciare le nocche altrui con gli zigomi. Per fare ciò, tuttavia, serviva un riferimento, un punto di fuga infinito verso cui tendere. Non poteva venirmi in mente null'altro se non Jordan in gara 5 alle finali del 1997.
Mentre l'acqua bollente non riusciva a lenire i miei brividi, ho deciso che quello sarebbe stato il mio Flu Game.
E ce l'ho fatta.
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