martedì 29 ottobre 2019

Avere quell'età

Lascerei volentieri da parte la retorica dei trent'anni. Cambierebbe poco se uno ne avesse ventinove o trentuno, invece sono proprio trenta e si portano dietro un evitabile carrozzone di banalità già ruminate da chiunque, finendo per aggravare una situazione che di per sé non è certamente idilliaca.
Ti guardi intorno e non c'è niente.
Cena da solo in casa. La coinquilina agli allenamenti, tornerà fra un'oretta. L'amico che stai ospitando fuori con la fidanzata probabilmente, del resto lui è Gastone Paperone: più s'impegna a far plateali cazzate, più la sorte gli risponde baciandolo in fronte. Confronto impietoso.
Gli oggetti che ti circondano sono estranei, nessuno ti appartiene. Che cos'hai, cosa possiedi? Una mazza di niente. Lo zainetto sulla sedia, che ti fissa come il commensale che non c'è.  Cos'altro? Un paio di ciotole per la colazione, carabattole. Nulla che non si possa spostare con due buste capienti.
Trent'anni e non hai ottenuto nulla.
Ci sono parole che sono precluse: mutuo, automobile, stabilità, vacanze.
Dicono però che la felicità non si misura dai beni materiali, bensì da quello che si prova dentro. Benissimo, scrutiamo dentro l'iphone allora (pure quello trasmesso dalla generosa materna figura). Una notifica di whatsapp galleggia, un pallino rosso su sfondo verde. E non la vuoi aprire. Il vaso di Pandora dell'infelicità, l'unica grande scommessa della tua vita. Ne hai perse altre, e dolorose, però insomma questa fa ancora più male perché era l'architrave emotivo del futuro, quella su cui si sarebbe potuto costruire qualcosa. Non solo un punto di fuga infinito verso cui tendere, ma qualcosa che lentamente si sarebbe potuto trasformare in una pietra angolare.
Invece no, una nota vocale di un minuto e cinque secondi per azionare lo sciacquone sugli ultimi quattro anni e mezzo della tua esistenza sentimentale. Non bastasse, si tratta del copione già recitato infinite volte da altre comparse, con tanto di modi e tempi verbali. Variano la scelta lessicale, bontà loro.
Per di più, sapevi che sarebbe andata a finire così. Quella razionalità che mai ti abbandona lo aveva suggerito, ti aveva permesso di vedere chiaramente che non poteva esservi un esito diverso.
Troppo tardi per lanciarsi giù dal treno, tanto vale schiantarcisi insieme.
Per rimanere in ambito ferroviario, la metafora del convoglio che passa sopra non sarebbe calzante: più azzeccato dire che staziona su di te, senza darti la possibilità di vedere null'altro al di fuori dei suoi pistoni e dei cavi neri che scorrono sotto i vagoni.
Torna proprio lei, quella sensazione già provata tante volte ma nascosta dietro improbabili e palliative scuse. Se si aprisse il messaggio e si rispondesse, non sarebbe diverso da mettere un nastro dal passato che copincolla quelle mille conversazioni già avute, tutte terribilmente uguali per contenuti ma soprattutto per esito. Più tragico di un'opera, più sadico di un finale di stagione di Grey's Anatomy.
Doveva rappresentare la diversità, la rottura col passato ed i suoi schemi, la liberazione, l'evasione da questa società. Fallimento totale, peggio di quando Mihajlovic cercò di vincere un derby cambiando tre giocatori nello stesso momento e prendendo gol all'azione dopo.
I più nobili e fini pensatori farebbero a questo punto notare che domattina sorgerà comunque il sole su questo mare pieno di pesci chiamato mondo ricco e fecondo di opportunità. Purtroppo costoro ignorano il treno che alberga sopra di te e che impedisce il godimento di questa valle incantata.
Ricomincerà tutto col sorgere del sole, una giornata di lavoro con obiettivi da portare a termine, una valigia da preparare e qualche altra cazzata sparsa qua e là. Tutto questo si farà.
Ma per quello che davvero conta, per quello che dovrebbe darti la felicità, dove cazzo si trova la forza?
E se fosse davvero tutto finito?