mercoledì 16 febbraio 2022

Fine vita mai

Forse c'è qualcosa di positivo quando un evento esterno ti suscita emozioni così forti da distrarti dal lavoro e dalle occupazioni quotidiane, costringendoti a riversare le emozioni sulla tastiera, sperando che prendano una forma e lì restino, fissate, in qualche misura separate dalla tua mente che le ha concepite e che ora ne è finalmente alleggerita. Peraltro, sarebbe l'unico aspetto positivo.

Conforta che non sia l'unico e, anzi, probabilmente è proprio in virtù e sull'onda delle molte testimonianze che ho letto nelle ultime ventiquattr'ore che ho riesumato un blog ormai morto e sepolto. Manco a farlo apposta, morto.

Volendo sintetizzare al massimo la nostra esistenza, potremmo dire che essa si compone di tre fasi: nascere, respirare e morire. Tutte e tre naturali, tutte e tre ineluttabili. Sulla prima, ovviamente, non abbiamo controllo alcuno; sulla seconda e sulla terza, dipende dai casi. Tralasciando la respirazione, ricca di spunti ma non centrale in questo momento, appare estremamente singolare come, per l'ennesima volta, in Italia il diritto di morire sia appannaggio di quell'élite che sta fisicamente bene ed è in grado di procurarsi lesioni sufficientemente gravi da cagionare il proprio decesso. Gli altri, invece, sono sofferenti di seconda categoria, non meritevoli di attenzione. Se ne stiano lì con il loro dolore e attendano in silenzio il proprio turno. 

Ci sono due aspetti di questa vicenda che mi mandano letteralmente fuori di testa. Il primo è che questa situazione l'abbiamo per molti versi creata noi esseri umani, attraverso il progresso e la medicina. Nella società di sessanta/settant'anni fa, cui ogni tanto pare si guardi con inspiegabile nostalgia, le cure a nostra disposizione non permettevano di mantenere in vita una persona al punto da renderla un sarcofago vuoto, senza che al proprio interno scorresse più linfa vitale. Per assurdo che possa sembrare, anziché creare un antidoto abbiamo creato una malattia - forse sarebbe più giusto dire prigionia - senza però che vi fosse una via d'uscita, senza pensare a cosa fare se la cura fosse diventata essa stessa il male che si proponeva di estirpare. O meglio, da tante parti ci sono riusciti perché in fondo non è così difficile, basta della buona volontà e una sana dose di pragmatismo. Invece in Italia dobbiamo sottoporre a un lancinante ed estenuante esercizio di dolore non solo chi dovrebbe essere destinatario del fine vita, ma anche chiunque abbia voluto bene a quella persona in quanto essere umano interagente col prossimo. Continuiamo a farlo con una brutalità spaventosa, algida dinanzi alla sofferenza altrui e sorda agli appelli di umanità. 

Lo sanno a memoria

il diritto divino

ma scordano sempre

il perdono.

La seconda invece la scrivo qua perché è più personale, infilandola in fondo magari si nota di meno e la maggior parte dei pochissimi sventurati che hanno iniziato la lettura se la sono già data a gambe. Sono ragionevolmente sicuro di perdermi nella stesura ma pazienza, non sono questioni banali e far affiorare il sommerso prevale sulla linearità e coerenza di uno scritto che non è in ogni caso destinato a informare. 

Riguardo alla questione del fine vita ho una certezza granitica che dovrebbe essere il faro di ogni dibattito sul tema (anche se, pure seriamente, di cosa si dovrebbe discutere?). Per capirla occorre fare un passo indietro. Sono una persona disperatamente attaccata alla vita perché terrorizzata dalla morte, nella maniera più assoluta e inappellabile. Non c'è modo per me di immaginare un approccio al tema che non mi faccia sprofondare nei più cupi drammi esistenziali, dai quali ogni tanto riemergo a fatica. Il mio cervello è lacerato non soltanto dall'idea di abbandonare l'esistenza terrena che è una figata colossale, ma anche e temo soprattutto dall'angoscia di quello che sarà dopo e, conseguentemente, del ruolo che giochiamo nell'universo, di che cosa rappresenta la nostra coscienza, di cosa accadrà quando calerà il buio. Mi schiaccia a terra, mi toglie il respiro, offusca tutti i raggi di sole che splendono sull'orizzonte. Ho paura anche solo a scriverne, devo farlo volgendo la mente altrove, senza che le parole si avviluppino ai miei pensieri ma restino ancorate allo schermo. Non ha neanche senso farsi vedere da uno bravo - per quanto bravo che sia, sono quesiti cui non possiamo dare risposta e l'assenza di questa risposta ci tormenterà in eterno. 

Su queste premesse, facile immaginarsi come e quanto peserò sul sistema sanitario nazionale se mi dovrò trovare in quelle terribili situazioni, abbarbicato fino all'ultimo sulle spalle dei contribuenti. Qui arriva l'inscalfibile certezza di cui sopra: nessuno mi toglierà mai questo diritto, nessuno verrà mai da me a chiedermi di togliermi dai piedi. Di più: a nessuno verrà neanche in mente. Per certi versi, questo mi regala un pizzico di serenità e dovrebbe regalarla anche a chi si sente attaccato o messo in pericolo dal riconoscimento di diritti a terzi. Per inciso, ho sempre trovato spassoso il timore che dall'ampliamento del novero dei diritti discendano minacce a chicchessia. Di quanto ciò sia vero ne abbiamo costanti esempi sotto il naso. Qualcuno ha mai bussato alla vostra porta per portarsi via uno dei vostri cari? No. Tanti di noi hanno visto i propri nonni appassire lentamente, perdere colore ed energia, fino a trasformarsi in scriccioli appesi a un filo sempre più sottile e non più in grado di reggere il loro pur esiguo peso. Abbiamo avvertito la loro sofferenza, l'abbiamo sentita scorrere dentro di noi e magari siamo anche riusciti a trovare la lucidità per realizzare che non erano gli unici in quella situazione e che altre persone hanno reagito o avrebbero voluto reagire diversamente. Tirare in ballo discorsi giuridici, politici o filosofici è del tutto superfluo: non c'è nulla che non siamo in grado di capire con le nostre funzioni basilari di esseri umani. Dobbiamo - in questo caso sì, ritengo che sia un dovere - lasciare alle persone la possibilità di scegliere se liberarsi o meno del dolore. 


lunedì 15 giugno 2020

Lettera da

Ascoltare canzoni di un'altra tifoseria, emozionarsi perché quella canzone parla di te.
Lettera per lettera, persino i riferimenti geografici.
Per finire in struggente bellezza col sogno che torni in Europa, che venga a trovarti.
Scrivere qualche riga sul blog per sfogare la tensione, sperando che al termine dell'ennesimo ascolto si possa spegnere, far partire la lavapiatti e andare a letto perché anche basta vivere di ricordi

sabato 13 giugno 2020

Citarsi

Ho cercato per un po' le parole giuste sulla questione statue. Poi mi sono ricordato che, come spesso accade, qualcuno c'aveva pensato prima di me e con risultati decisamente migliori.
Sono ragionevolmente sicuro di aver già pubblicato qua sopra questo passaggio, ma evidentemente è opportuno rifarlo.
"Basta spostarci di latitudine e vediamo come i valori diventano disvalori e viceversa, non parliamo poi dello spostarci nel tempo. C'erano delle morali nel medioevo e nel rinascimento che oggi non sono più assolutamente riconosciute".
De Andrè, introduzione a La città vecchia, 1998. Concerto al teatro Brancaccio.
Direi che la questione è chiusa, potete cagarvi in mano e prendervi a schiaffi.

mercoledì 10 giugno 2020

Anniversari

Tra le novità introdotte negli ultimi anni dalle varie piattaforme di comunicazione, o meglio da chi le sfrutta, ce n'è una che aborro perché è il più bieco modo di acchiappare gradimento e notorietà: frantumar le palle con qualsiasi anniversario possibile e immaginabile. Non avendo nulla da dire sul presente - si noti infatti la clamorosa mancanza di riflessioni - queste pagine, di solito sportive, ricordano agli utenti che ESATTAMENTE otto anni fa accadeva un determinato evento. Al di là dell'ovvia obiezione per cui chi se ne frega, che senso ha festeggiare gli otto, i dodici, i ventuno anni e via dicendo? Capisco la cifra tonda: ogni dieci anni si rimembra quell'avvenimento, bene, comprensibile. In questo modo però non si fa altro che riproporre ciclicamente il medesimo contenuto e se osserviamo da una prospettiva ex post la situazione non fa che peggiorare perché ogni giorno posteranno il medesimo messaggio, limitandosi ad aggiornare la data. Che tristezza. Che squallore.
Siccome ho di nuovo un blog dal quale lanciare i miei temutissimi attacchi, posso finalmente togliermi di dosso tutti questi pensieri e affidarli all'etere che di sicuro li trasmetterà a chi di dovere. In particolare, queste pagine con un debole per gli anniversari sono nel mio mirino da tempo immemore e la soddisfazione di poter mettere per iscritto tutto quello che penso è doppia.
Occorre però ammettere che il giorno scelto non è casuale, trattandosi infatti di una data non qualsiasi.
Due anni fa chiudevo la pagina più lunga e duratura della mia vita, quella da torinese. Culminando con un matrimonio e un'improvvisata ai Murazzi vestito ancora da cerimonia, salivo ancora ubriaco su un aereo con destinazione Portogallo, dove avrei trascorso l'estate in attesa di trasferirmi in Olanda. Da lì non mi sono più voltato indietro, come avrebbe dovuto fare quel fesso di Orfeo, anziché cercare a tutti i costi di vedere Euridice. Peraltro il dieci giugno è sempre stata una data ben presente nella mia memoria, trattandosi del compleanno di mio nonno che un anno coincise con l'entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale. Lui compiva ventun anni quel giorno. Sarebbe dovuto andare al fronte ma non passò le visite mediche: troppo basso e insufficiente circonferenza toracica. Del primo limite son sicuro, del secondo meno ma è quello che ricordo mi disse al tempo, purtroppo ero bambino e la mia memoria potrebbe rivelarsi fallace. Sarei in realtà estremamente curioso di sapere se fosse davvero così, ossia se fosse quello l'esame cui erano sottoposti i cittadini prima di essere spediti al fronte. La certezza - e la fortuna - è che mio nonno al fronte non ci andò, anzi durante la guerra si sposò ed ebbe pure la prima figlia.

martedì 9 giugno 2020

Idoli

Dovrò scrivere di corsa ed è un peccato perché questo è un bello spunto di riflessione. Anzitutto una nota di colore: ormai facebook non fa più di moda, i gaggi stan su twitter. Ed è lì che ho letto un tizio lamentarsi dell'eccessivo nichilismo nei confronti di tutti i personaggi del passato, un senso ipercritico che porta a non ammirare più nessuno e quindi, a suo dire, a perdere anche dei punti di riferimento.
Debbo esprimere il mio disaccordo nei confronti di quell'utente. Pur apprezzando il suo punto di vista, trovo al contrario che sia indice di maturità non avere dei miti globali, totali. Del resto, mi auguro che ognuno di noi abbia contezza delle proprie contraddizioni e del fatto che sarebbe assurdo se qualcuno ci mettesse su un piedistallo o su un altare, volendo essere come noi in tutto e per tutto o facendosi assurgere a modelli di vita. Dato che siamo tutti uomini, è di tutta evidenza come questo ragionamento si possa facilmente applicare a chiunque. Vi è però un ulteriore questione di fondo che secondo me andrebbe chiarita: basta con questi soggetti che tracciano la via, al tempo stesso allenatori di calcio e filosofi, chitarristi e analisti politici, presentatori televisivi e discettatori di finanza pubblica. Beninteso, nessuno si sogna di vietare la libertà di espressione. Anzi, proprio perché è sacra finisce per rivelare i limiti di tutti noi e, di conseguenza, l'impossibilità di aspirare a qualsivoglia sorta di perfezione. Del resto, non si capisce perché mai un cantante dovrebbe anche esser colui che ci spiega come porci nei confronti della concorrenza fiscale praticata da certi Paesi a danno di altri all'interno dell'Unione Europea. Proprio qua dovrebbe giacere il discrimine: esistono personaggi che pretendono di dispensare sapienza e muovere masse sfruttando la propria popolarità, mentre altri aggiungono a questa delle considerazioni che sono in effetti intelligenti.
L'esempio più calzante viene probabilmente dalla pallacanestro americana: in seguito alla prima ondata di proteste per la questione razziale da parte degli atleti e il conseguente atteggiamento quasi denigratorio di certi giornalisti ("shut up and dribble", "stai zitto e palleggia"), sono emerse delle voci particolarmente autorevoli e portatrici di messaggi condivisibili o meno, ma comunque meritevoli di ascolto indipendentemente da chi li pronunciasse. Per converso, alcuni sono proprio scemi come la merda ed è palese l'imbarazzo anche dei loro amici quando viene in qualche modo chiesto conto di dichiarazioni valevoli ai fini dell'erogazione della 104.
Ben venga la commistione, il cantante non deve solo cantare, l'analista non deve solo analizzare e via discorrendo, purché non si rinunci ad analizzare la singola posizione sacrificandola sull'altare della pregressa popolarità.
Come va a finire? Sorpresa: più la gente parla più ci rendiamo conto che anche chi si è distinto in particolari campi e che - finché vi restava - ci pareva uno zeitgeist, si rivela in fondo fallace e umano come noi, al massimo con un'abilità in più che lo rende una penna piacevole, un volto che buca lo schermo o un atleta eccezionale.
Chiudo col più amaro dei ricordi. Ho posseduto una sola maglietta da calcio della mia squadra, quella del bomber della mia infanzia. Lo stesso che, durante la festa promozione, ancora pieno di spumante negli spogliatoi, pensò bene di chiedere un aumento in diretta tv. Prima cosa. Lui è ancora un eroe della mia infanzia? Sì. Gli voglio bene come a un padre? Sì. Penso che dovremmo pendere dalle sue labbra? Manco per il pene.

lunedì 8 giugno 2020

Cose che fanno girare gli ingranaggi

Era il titolo di un programma televisivo di Peter Griffin e mi è parso fosse calzante per il contenuto odierno, del quale preciso di non andare estremamente fiero perché è poco di più di uno Striscia la Notizia in salsa radical, ma siccome ho ripreso a tormentare i tasti e appesantire i server svuotandoci dentro i miei pensieri, posso finalmente togliermi questo peso che mi assilla dalle due alle tre volte al giorno.
Uno dice vado all'estero, dove tutto funziona meglio.
Uno dice vado nel Nord Europa, stipendi più alti, qualità della vita migliore, servizi più efficienti.
Sì, no, forse, boh, stigatti.
Tutto è inutile se ci si ritrova sbigottiti dinanzi al totale fallimento di un oggetto che la società occidentale ci impone di usare su base quotidiana.
Voglio dire, è comprensibile che uno torni nella madrepatria e decida di portare nel Nord alcune cibarie che non si trovano, funziona così a tutte le latitudini e sarebbe scorretto stupirsene. Magari anche uno o due prodotti che si possono reperire a prezzi sensibilmente più bassi, perché no. Del resto, se uno ha sempre cercato di camuffare i propri olezzi con uno specifico deodorante e non è in grado di acquistarlo all'estero, pare del tutto legittimo che ne faccia scorte quando ne ha la possibilità. Ma sto divagando, quantunque anche questo esempio sia tratto da una commovente storia vera.
D'accordo riempirsi la valigia di cibarie, questo era l'assunto. E di deodoranti, corollario.
Quello che invece risulta grottesco è che si renda necessario, leggasi bene necessario, n-e-c-e-s-s-a-r-i-o, non dipendente dunque dalla volontà bensì imprescindibile, fare incetta di spazzolini da denti.
Non stiamo parlando di prodotti di alta tecnologia signore e signori della Corte, ci riferiamo anzi proprio ai simpatici spazzolini ogni tanto reclamizzati in tv e che costano una (ridotta) manciata di euri in qualsiasi supermercato, tendenzialmente in prossimità delle casse.
Sono qui per affermare, dopo aver prestato giuramento sulla Costituzione e sul Signore degli Anelli di dire la verità, solo la verità e nient'altro che la verità, che gli spazzolini in Olanda fan cacare. Ebbene sì, ho detto cacare e non cagare, un omaggio a Nanni Moretti. Dall'allievo al Maestro.
Perdono le setole in continuazione, sin dal primo lavaggio.
Anzitutto mi risulta incomprensibile che qualche associazione di consumatori non se ne sia lamentata e non ne abbia fatto un caso di rilevanza nazionale con scioperi e interruzione dei pubblici servizi.
In aggiunta, vorrei capire se questi trovano divertente lavarsi i denti e dover continuamente estrarre dalla bocca questi filini di plastica che si sono staccati e albergano tra molari e palato o sotto la lingua.
Sarà mica che tutto il latte che ho bevuto e che continuo a bere mi ha trasformato in una creatura da dei poderosi denti a sciabola? A quel punto tanto vale farci dei soldi, potrei diventare youtuber e scalare la vetta della fama globale pubblicando contenuti in cui divello innocenti spazzolini con sdegnosa e spietata furia. Ipotesi comunque da non scartare.
Si tenga da ultimo presente, e con questo mi accingo a concludere, signore e signori della corte, che all'apparenza questi strumenti per il lavaggio dei denti e della cavità orale non presentano alcuna difformità con quelli che si potrebbero trovare dappertutto. Passi uno, sarà un caso. Passi due, sarà sfiga. Al terzo si fa una risata perché - mannaggia - capitano tutte a me, con occhiolino alla telecamera e democristo sorriso sornione di chi è in grado di affrontare le asperità della vita con italico buonumore. Il quarto però legittima reazioni violente, danneggiamenti alle proprietà altrui e sinanco lesioni aggravate a danno di minori.
Non basterà a fermarci, andremo avanti fino alla verità.
O quantomeno fino alla prossima gita in Italia, quando riempiremo una valigia di spazzolini.