cartesiani
terapia
scrooge mcduck
Forse c'è qualcosa di positivo quando un evento esterno ti suscita emozioni così forti da distrarti dal lavoro e dalle occupazioni quotidiane, costringendoti a riversare le emozioni sulla tastiera, sperando che prendano una forma e lì restino, fissate, in qualche misura separate dalla tua mente che le ha concepite e che ora ne è finalmente alleggerita. Peraltro, sarebbe l'unico aspetto positivo.
Conforta che non sia l'unico e, anzi, probabilmente è proprio in virtù e sull'onda delle molte testimonianze che ho letto nelle ultime ventiquattr'ore che ho riesumato un blog ormai morto e sepolto. Manco a farlo apposta, morto.
Volendo sintetizzare al massimo la nostra esistenza, potremmo dire che essa si compone di tre fasi: nascere, respirare e morire. Tutte e tre naturali, tutte e tre ineluttabili. Sulla prima, ovviamente, non abbiamo controllo alcuno; sulla seconda e sulla terza, dipende dai casi. Tralasciando la respirazione, ricca di spunti ma non centrale in questo momento, appare estremamente singolare come, per l'ennesima volta, in Italia il diritto di morire sia appannaggio di quell'élite che sta fisicamente bene ed è in grado di procurarsi lesioni sufficientemente gravi da cagionare il proprio decesso. Gli altri, invece, sono sofferenti di seconda categoria, non meritevoli di attenzione. Se ne stiano lì con il loro dolore e attendano in silenzio il proprio turno.
Ci sono due aspetti di questa vicenda che mi mandano letteralmente fuori di testa. Il primo è che questa situazione l'abbiamo per molti versi creata noi esseri umani, attraverso il progresso e la medicina. Nella società di sessanta/settant'anni fa, cui ogni tanto pare si guardi con inspiegabile nostalgia, le cure a nostra disposizione non permettevano di mantenere in vita una persona al punto da renderla un sarcofago vuoto, senza che al proprio interno scorresse più linfa vitale. Per assurdo che possa sembrare, anziché creare un antidoto abbiamo creato una malattia - forse sarebbe più giusto dire prigionia - senza però che vi fosse una via d'uscita, senza pensare a cosa fare se la cura fosse diventata essa stessa il male che si proponeva di estirpare. O meglio, da tante parti ci sono riusciti perché in fondo non è così difficile, basta della buona volontà e una sana dose di pragmatismo. Invece in Italia dobbiamo sottoporre a un lancinante ed estenuante esercizio di dolore non solo chi dovrebbe essere destinatario del fine vita, ma anche chiunque abbia voluto bene a quella persona in quanto essere umano interagente col prossimo. Continuiamo a farlo con una brutalità spaventosa, algida dinanzi alla sofferenza altrui e sorda agli appelli di umanità.
Lo sanno a memoria
il diritto divino
ma scordano sempre
il perdono.
La seconda invece la scrivo qua perché è più personale, infilandola in fondo magari si nota di meno e la maggior parte dei pochissimi sventurati che hanno iniziato la lettura se la sono già data a gambe. Sono ragionevolmente sicuro di perdermi nella stesura ma pazienza, non sono questioni banali e far affiorare il sommerso prevale sulla linearità e coerenza di uno scritto che non è in ogni caso destinato a informare.
Riguardo alla questione del fine vita ho una certezza granitica che dovrebbe essere il faro di ogni dibattito sul tema (anche se, pure seriamente, di cosa si dovrebbe discutere?). Per capirla occorre fare un passo indietro. Sono una persona disperatamente attaccata alla vita perché terrorizzata dalla morte, nella maniera più assoluta e inappellabile. Non c'è modo per me di immaginare un approccio al tema che non mi faccia sprofondare nei più cupi drammi esistenziali, dai quali ogni tanto riemergo a fatica. Il mio cervello è lacerato non soltanto dall'idea di abbandonare l'esistenza terrena che è una figata colossale, ma anche e temo soprattutto dall'angoscia di quello che sarà dopo e, conseguentemente, del ruolo che giochiamo nell'universo, di che cosa rappresenta la nostra coscienza, di cosa accadrà quando calerà il buio. Mi schiaccia a terra, mi toglie il respiro, offusca tutti i raggi di sole che splendono sull'orizzonte. Ho paura anche solo a scriverne, devo farlo volgendo la mente altrove, senza che le parole si avviluppino ai miei pensieri ma restino ancorate allo schermo. Non ha neanche senso farsi vedere da uno bravo - per quanto bravo che sia, sono quesiti cui non possiamo dare risposta e l'assenza di questa risposta ci tormenterà in eterno.
Su queste premesse, facile immaginarsi come e quanto peserò sul sistema sanitario nazionale se mi dovrò trovare in quelle terribili situazioni, abbarbicato fino all'ultimo sulle spalle dei contribuenti. Qui arriva l'inscalfibile certezza di cui sopra: nessuno mi toglierà mai questo diritto, nessuno verrà mai da me a chiedermi di togliermi dai piedi. Di più: a nessuno verrà neanche in mente. Per certi versi, questo mi regala un pizzico di serenità e dovrebbe regalarla anche a chi si sente attaccato o messo in pericolo dal riconoscimento di diritti a terzi. Per inciso, ho sempre trovato spassoso il timore che dall'ampliamento del novero dei diritti discendano minacce a chicchessia. Di quanto ciò sia vero ne abbiamo costanti esempi sotto il naso. Qualcuno ha mai bussato alla vostra porta per portarsi via uno dei vostri cari? No. Tanti di noi hanno visto i propri nonni appassire lentamente, perdere colore ed energia, fino a trasformarsi in scriccioli appesi a un filo sempre più sottile e non più in grado di reggere il loro pur esiguo peso. Abbiamo avvertito la loro sofferenza, l'abbiamo sentita scorrere dentro di noi e magari siamo anche riusciti a trovare la lucidità per realizzare che non erano gli unici in quella situazione e che altre persone hanno reagito o avrebbero voluto reagire diversamente. Tirare in ballo discorsi giuridici, politici o filosofici è del tutto superfluo: non c'è nulla che non siamo in grado di capire con le nostre funzioni basilari di esseri umani. Dobbiamo - in questo caso sì, ritengo che sia un dovere - lasciare alle persone la possibilità di scegliere se liberarsi o meno del dolore.