mercoledì 14 marzo 2012

pensierino del giorno-14/03/2012


Storia di un impiegato

Quando è uscito Storia di un impiegato avrei voluto bruciarlo. Era la prima volta che mi dichiaravo politicamente e so di avere usato un linguaggio troppo oscuro, difficile. L'idea del disco era affascinante: dare del Sessantotto una lettura poetica. Invece è venuto fuori un disco politico. E ho fatto l'unica cosa che non avrei mai dovuto fare: spiegare alla gente come comportarsi”. Queste sono le parole con le quali Fabrizio de andrè commenta storia di un impiegato, album rilasciato nel 1973. con questa premessa, vi guidiamo all’ascolto di un’opera controversa e contestata, allegorica in ogni suo verso. Possiamo iniziare dalla prima traccia, l’introduzione.

Introduzione

Nel periodo più cupo e tormentato dell’Italia repubblicana, a tre anni e mezzo dall’attentato di Piazza Fontana a Milano e in piena strategia della tensione, Fabrizio De Andrè si cimenta nella musica socialmente impegnata. Solo due anni e mezzo dopo la poesia contenuta nell’album “non al denaro, non all’amore né al cielo” esce “storia di un impiegato” che rappresenta il senso di ribellione provato da un appartenente alla classe media nei confronti della società e del potere che essa, attraverso varie figure, esercita sugli uomini. Il contesto storico di quegli anni, in seguito ribattezzati “anni di piombo”, vede un Paese lacerato dalla nascita di formazioni eversive, tanto di destra quanto di sinistra, dedite al terrorismo e alla lotta armata. Entrambe le parti compiono atti di efferata ferocia che causeranno numerosi morti, tra i quali non solo militanti delle fazioni ma anche gente comune che non aveva alcuna intenzione di prender parte alla disputa.
Nel 1973 esce dunque storia di un impiegato, che è un concept album: le canzoni sviluppano una storia da ascoltare tutta d’un fiato, così come si legge un libro dall’inizio alla fine.  Estrapolare una singola canzone dal contesto sarebbe come staccare da un mosaico le tessere che compongono una parte della figura: magari prese di per sé possono anche dare un’immagine precisa e definita, tuttavia il loro autentico valore è rivelato solo quando sono collocate insieme alle altre per dar vita a un insieme più complesso e armonico, nel quale ognuna è parte indispensabile.
Alla realizzazione di quest’opera collaborano personalità di spicco: Giuseppe Bentivoglio, che in quegli anni è molto vicino a faber, aiutandolo nella composizione di brani in tutti morimmo a stento e in non al denaro non all’amore né al cielo; nicola piovani, futuro premio oscar nel 1999 per la colonna sonora del film di benigni la vita è bella, cura gli arrangiamenti e la direzione d’orchestra.
Il titolo è più che mai chiaro: storia di un impiegato è il racconto della mediocrità e del grigiore che circonda la maggior parte delle persone, troppo pavide per scuotersi e provare a ottenere di più di una banale e insignificante vita trascorsa a capo chino, nella paura e nel rispetto delle autorità e delle istituzioni. Nella visione veicolata dal disco questa piccola borghesia mette la propria esistenza nelle mani di un sistema che la manovra come una pedina, prendendo le decisioni più importanti al posto suo e imponendole un sistema di regole che la ingabbia, privandola del bene supremo, la libertà. E il sistema è ancora più subdolo, perché lascia credere che questa sia la soluzione migliore, mentre l’intolleranza dei giovani per questa ragnatela che la avvolge e opprime sfocia nella violenza.  
Come ogni racconto ha un inizio, un protagonista, le sue peripezie e un finale. Abbiamo già brevemente introdotto il protagonista, la voce narrante, quindi andiamo con ordine seguendo il filone cronologico e partiamo dall’inizio.
La scintilla scocca quando l’impiegato ascolta un brano cantato dagli studenti parigini durante il turbolento maggio del ’68. Le accuse lanciate dagli studenti nei confronti non solo di polizia e padroni, ma anche di chi ha preferito rimanere inerte a casa propria mentre fuori infuriava la battaglia, colpiscono nel segno e sembrano risvegliare dal torpore chi le ascolta. Lo scontro aspro e violento vedrà la sconfitta dei manifestanti, i quali però vogliono tracciare una linea netta tra loro stessi e chi non li ha avallati, definendoli a chiare lettere complici del potere.  Ascoltiamola allora e risvegliamoci dal torpore: la canzone del maggio.

Canzone del maggio versione non censurata

A questo punto è necessaria una piccola digressione. Ogni storia acquista interesse a seconda di quanto ha di nascosto nelle proprie pieghe e in questo album troviamo addirittura una canzone censurata. Quella che avete ascoltato è la prima stesura della canzone del maggio e ha un testo ancora più crudo, intriso di dolore per la sconfitta e di una rabbia che non accenna a placarsi. Sembra voler dire “avete vinto il primo round, ma perderete questa guerra”. Nel ritornello le parole “voi non potete fermare il vento, gli fate solo perdere tempo” suonano come una sinistra minaccia, testimoniano un conflitto che è solo nello stadio iniziale. Un messaggio che non può essere tollerato in un momento così delicato, dove si contano morti e feriti negli scontri di piazza. Il vento dev’essere in qualche modo fermato, così Faber è costretto a rivedere il testo del brano, consapevole della necessità di farsi comunque portavoce del sentimento sessantottino; conteso tra la ragione e il sentimento, de andrè dovrà apportare delle modifiche.
Ecco quindi che nell’album si trova una diversa versione di questa canzone: la melodia è inalterata, ma i versi perdono vigore se posti a confronto coi precedenti. Non si parla più di continuare la lotta, ma si lanciano accuse contro chi ha fatto fallire la ribellione a causa della mancanza di ardimento. Questa è la versione che trovate nell’album originale.

Canzone del maggio

D’un tratto, l’impiegato apre gli occhi sulla realtà che lo circonda: vive in un mondo pre-confezionato, una sorta di Truman Show ante litteram. Tuttavia questa realtà concede una serie di agi che non giustificano, agli occhi di molti, il desiderio di ribellione. Eppure qualcosa brucia dentro il corpo dei giovani, brucia al punto da portarli a una battaglia che è destinata in partenza alla sconfitta. Ma si tratta di una sconfitta che non fa paura perché non rinunceranno ai loro ideali e sanno che l’unico modo per farli valere sarà combattere.
Nella testa dell’impiegato cominciano a farsi largo strane idee, quasi inquietanti. Ormai la situazione è chiara: la ribellione spinge sempre di più, lo tenta come il canto delle sirene. Oppone resistenza, cerca di tornare al lavoro come dovrebbe fare ogni brava pedina nelle mani del sistema. La lacerazione interna, l’aspro conflitto tra il dovere e il volere lo tormentano sempre di più. Nonostante il tentativo di scacciare dalla propria mente le scintille della rivolta, queste al contrario acquistano sempre più forza e pian piano diventano un fuoco, alimentato dal fatto che l’impiegato ha trovato loro un senso. Perché il fuoco si trasformi in incendio, tuttavia, serve ancora un elemento centrale, che caratterizza tutti i movimenti di protesta e quindi anche storia di un impiegato. Stiamo parlando del coraggio.


La bomba in testa

Questo coraggio manca, così vi sopperisce col sogno nel quale progetta il proprio gesto estremo. Ecco che, sotto le coperte, il protagonista si addormenta e comincia a sognare.
Inizia la parte più sfumata dell’album, dove non sempre si riesce a seguire i contorni delle immagini che la sua mente proietta. Il mezzo migliore per raggiungere il proprio fine è una bomba al tritolo, vista come imparziale giustiziera di tutti i simboli del potere, che non potranno avere scampo. Dunque si ritrova in un ballo mascherato, dove incontra varie figure.
La prima è un cristo che de andrè definisce drogato da troppe sconfitte che vede le sue idee non più rappresentate dalla classe clericale di allora; proseguendo il suo giro tra gli invitati trova la vergine maria, la quale prova nostalgia per il tempo in cui era una madre incinta come tutte le altre.
Ce n’è anche per dante alighieri, il sommo poeta fiorentino, che viene beccato a sbirciare, forse per invidia, paolo e francesca. Lui che non ha potuto coronare il proprio sogno d’amore con beatrice farà invece in modo di celebrare quello dei due giovani, al punto da rendere il canto quinto dell’inferno una delle parti più celebri della divina commedia.
Trapela quasi una certa allegria pensando alla bomba e alla sua funzione normalizzatrice, a come sarà in grado di azzerare in un colpo solo la società.
De andrè salta di palo in frasca e dopo dante scorge la statua della libertà mentre si rimira allo specchio vanitosa, chiedendosi chi sia più bella tra lei e la pietà di Michelangelo.
L’ammiraglio nelson, ucciso nella battaglia di Trafalgar che poi fu vinta dalla sua flotta,  implora una sant’elena anche in comproprietà, niente affatto felice del suo destino e invidiando anzi chi ha potuto vivere la propria vecchiaia fino alla fine dei suoi giorni. A poco gli serve ricordare la vittoria ottenuta, dato che per essa ha pagato il prezzo più alto: la vita.
Sono terminati i personaggi storici e si passa a figure a lui più vicine, facenti parte della quotidianità: i genitori. Dapprima il padre, il cui decoro risulta tanto odioso da volerlo veder esplodere per primo, e solo dopo vedrà il genitore andare in mille pezzi. La madre, martire per propria scelta, farà la stessa fine e la liberazione da loro due segna la definitiva sottrazione dall’autorità genitoriale.
L’ultima vittima rappresenta il momento in cui l’individualismo dell’impiegato raggiunge il suo apice: ormai non deve più guardare in faccia nessuno, tantomeno l’amico che gli ha insegnato come fabbricare l’ordigno. Sarà anche lui coinvolto nella strage, nonostante il suo notevole apporto alla causa. Il brano che avete ascoltato prima era la bomba in testa, dove abbiamo annunciato l’inizio del sogno. Ecco che ora il sogno prende vita, ne al ballo mascherato, traccia numero 4.

Al ballo mascherato

Come avrete potuto constatare, è con estrema facilità che ci si perde attraverso le allegorie e i velati riferimenti coi quali de andrè riempie questo album. È piuttosto difficile che il primo ascolto sia sufficiente per una piena comprensione, data la necessità di districarsi tra un linguaggio oscuro e in certi tratti perfino contorto, quasi come se non volesse svelare la propria identità a tutti, ma solo a chi è in grado di coglierla. Una sorta di messaggio cifrato.
Intanto il sogno non si arresta e sviluppa una storia all’interno della storia, talmente consistente da assumere un ruolo autonomo. L’attentato al ballo non è a lungo rimasto senza colpevole, così l’impiegato è trascinato davanti a un giudice che parla con la voce psichedelica di faber. Qui giunge la disillusione più grande: il suo gesto non è servito allo scopo che si era prefisso, anzi è stato di aiuto al potere. Proprio il giudice gli spiega che attraverso l’eliminazione di una parte di potere, l’impiegato è entrato a farne parte, poiché il potere deve sempre rinnovarsi. Eccoci alla sconfitta totale dell’individuo, che credeva di compiere una vendetta e si è invece ritrovato nudo e fragile a ricevere i ringraziamenti per l’opera svolta da parte di chi voleva combattere. È stato il loro boia, controllato per tutto questo tempo. Alla disillusione deve aggiungersi il dilemma di una scelta che il giudice gli pone: da una parte l’assoluzione e quindi l’asservimento al potere, dall’altra la condanna e quindi il carcere. In ogni caso si rende conto di aver perso contro questo terribile potere dal funzionamento meschino, che riesce a girare in suo favore qualsiasi azione: chi si ribella entra a far parte delle sue schiere, chi invece pensa di colpirlo lo aiuta nel proprio disegno.
State per ascoltare il quinto brano dell’album: sogno numero due.

Sogno numero due

Ormai il sogno è un fiume in piena che travolge le ambizioni dell’impiegato e prosegue vorticoso nel suo sviluppo, fino a diventare un incubo quando realizza la sconfitta. Sembra di sentirlo mentre si agita nel letto, terrorizzato dalla deriva inaspettata che gli eventi hanno preso.
Nella canzone successiva, l’impiegato sceglie di prendere il posto del proprio padre, da lui stesso ucciso. E’ l’emblema della vita medio-borghese come anello di congiunzione tra i vari scalini della piramide del comando: attraverso la metafora delle navi, delle quali dovrà dirigere al fiume le più piccole, mentre le più grandi sanno già dove andare, si esprime il ristretto potere decisionale di chi è entrato a far parte di questo sistema. Potrà comandare qualcuno, ma sarà sempre destinato a riconoscere un’autorità superiore.
Ci sono varie interpretazioni su berto, un compagno di scuola del quale viene velocemente narrata la storia: era il figlio della lavandaia che seppellisce sua madre in un cimitero di lavatrici, macchine che sono al tempo stesso il superamento e la negazione del suo lavoro. Per alcuni rappresenta un poveraccio che, come tanti altri, si lascia piovere addosso e la cui morte viene trattata con noncuranza dai giornali; secondo un altro punto di vista berto è invece colui che ha rifiutato la vita borghese preferendone una più tragica  ed eroica, arrivando a rifiutare l’autorità suprema, quella di dio. Questa versione è rafforzata dai versi che recitano “si fermò un attimo per suggerire a dio di farsi i fatti suoi”.
L’unica certezza è che ormai l’impiegato è una rotella della società, entrato in una vita scialba e avara di emozioni. La sua famiglia è quella da quadretto tipico, con moglie e figlio. Eppure la felicità non arriva, dato che con la moglie la passione viene progressivamente meno, fino a tramutare il rapporto in uno stanco susseguirsi di giornate uguali le une alle altre; destino ancora peggiore tocca al figlio, che per la disperazione sceglie la via della droga e lì si lascia andare del tutto, senza un minimo sforzo per restare aggrappato alla vita. Il fallimento della famiglia è lampante, neppure questa costruzione sociale nella quale rifugiarsi per sfuggire alla realtà concede riparo adeguato. Si sente braccato da ogni parte, non ha vie di fuga. Poco prima di riaprire gli occhi, invaso dall’ira, lancia un’ultima minaccia al giudice che lo ha costretto a vivere quest’esperienza: si vendicherà attraverso una bomba vera, che colpirà non più maschere e simboli, ma uomini in carne e ossa.
Ecco allora la sesta traccia, la canzone del padre.

La canzone del padre

L’atmosfera cambia. L’impiegato si è svegliato madido di sudore, terrorizzato da quello che ha visto in sogno e risoluto più che mai. Deve passare all’azione e la musica non trasmette più un’atmosfera lugubre, anzi il motivetto della ballata che riprende la prima parte sembra il fischiettio di chi è intento a svolgere un lavoro manuale. L’accanimento del bombarolo è totale, si sente solo in questa vendetta, circondato da intellettuali che parlano in maniera nebulosa e confusa, accennando a vuote retoriche di rivoluzione.
Nonostante l’eccitazione che lo pervade, è molto lucido nella sua analisi della società, che definisce ammalata di terrore. Sa bene di essere destinato alla fuga, una volta compiuto l’attentato, ma ora si sente il cacciatore e le prede sono i soci vitalizi del potere.
Anche in un contesto fortemente politicizzato de andrè non rinuncia a tirar fuori la sua vena poetica, che nell’ultima parte dell’album viene fuori con maggior vigore. Il passaggio a nostro avviso più toccante sono i versi in cui canta c’è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo, io son d’un altro avviso, son bombarolo.
Il suo piano è quasi portato a termine, manca solo l’esplosione finale dentro il parlamento, luogo dove più di ogni altro il potere esercita materialmente il proprio ruolo.
Tuttavia, l’intero disco è pervaso dal sentimento dell’incombente sciagura, del fallimento annunciato. Così come fallirono i cuccioli del maggio, lo stesso destino aspetta l’impiegato. Crudele e insensibile, faber lo ritrae prima mentre sghignazza in attesa della detonazione, poi mentre singhiozza: la bomba è rotolata giù da una scalinata e ha fatto saltar per aria un chiosco di giornali, mandando in fumo la vendetta. La disperazione per il fallito tentativo viene acuita dall’abbandono della fidanzata con la quale condivide le prime pagine dei giornali, ma lei lo ha lasciato solo e ne prende seccamente le distanze, condannandolo. Ed è questa la tragedia più grande per il dinamitardo mancato, che si rende conto di esser rimasto senza alcun appiglio tra le altre persone, isolato dal resto degli uomini. Avanti con la traccia numero sette, il bombarolo.

Il bombarolo

La triste vicenda dell’impiegato volge al termine. Dopo aver prima sognato e poi provato a realizzare un attentato, si ritrova imprigionato e senza via d’uscita. Il suo pensiero va alla donna che ha amato, così rapida nello smarcarsi da lui quando compì il folle gesto. Racconta nicola piovani in un’intervista rilasciata al quotidiano la repubblica che la registrazione di questa canzone fu estremamente veloce, già al secondo, massimo terzo tentativo erano incise le parti di pianoforte, suonato da lui, e la voce di fabrizio. Su questo binomio voce-pianoforte registrarono poi gli altri strumenti come la chitarra, il basso e il flauto dolce, facendo attenzione che non minassero il fragile andamento originario.
Il risultato è uno struggente capolavoro che non per niente fu poi riproposto con continuità in concerto, a differenza delle altre tracce.
Ora che si trova in carcere ha tempo per ripercorrere la loro storia d’amore, imperfetto come dev’essere ogni amore. Emerge forte il rimpianto per l’infelice epilogo cui è andato incontro e sembra che l’unico ricordo in grado di farlo vivere sia proprio quello della donna amata, perciò le chiede di non gettare in pasto ai giornalisti quanto hanno condiviso e di restare sincera in nome del loro comune passato. Sono stati divisi perché, per quanto entrambi insoddisfatti della loro vita mediocre, lei non ha trovato il coraggio di ammetterlo di fronte a se stessa, così le è stato più facile abbandonarlo e passare dall’altra parte. I suoi occhi tuttavia l’hanno tradita, nei suoi occhi l’impiegato leggeva questo sopito desiderio e si dispera per non essere riuscito a cambiarla, allo stesso modo in cui lei non ha cambiato lui. Chi ne esce vincitore è, ancora una volta, il potere: l’antico adagio divide et impera si è dimostrato valido una volta di più, ed è stato il potere a cambiare entrambi. Si chiede poi come deciderà di vivere il prosieguo della sua esistenza, se cercherà in qualche modo di inseguire dei sogni o se, più verosimilmente, si piegherà alla società e ai suoi rigidi schemi. Le fa allora una domanda che tutti quanti dovremmo porci più spesso: continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai?
Sono già state sprecate troppe parole profane, è tempo di lasciar spazio alla voce del poeta. Brano numero otto, verranno a chiederti del nostro amore.

Verranno a chiederti del nostro amore

Abbandonati i dolci ricordi, l’impiegato affronta il carcere nel quale è stato rinchiuso. Proprio lì, quando tutto sembrava perduto, scopre la comprensione degli altri uomini. Sono persone con tratti simili ai suoi e che ora si trovano nella stessa terribile condizione. È il momento in cui apre gli occhi per la prima volta, abbandona l’individualismo che lo ha condotto fin lì e lo rinnega in nome della forza della collettività, il cui collante sono gli ideali di ribellione e la comune convinzione che non ci siano poteri buoni. Il vento anarchico che gonfia le vele dei carcerati, unito alla rabbia repressa ma non per questo estirpata, li spinge alla rivolta contro i secondini, che nel micro-cosmo del carcere rappresentano il potere da sempre tanto odiato. Finalmente comprende appieno la canzone del maggio, il suo significato si esplica attraverso una partecipazione ampia e numerosa, non con l’atto del singolo. La sua voce si confonde insieme alle altre mentre lancia il suo grido di accusa “per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti”. Dunque si torna all’inizio dell’album, da dove tutto era partito, questa volta con la consapevolezza di poterne dare una lettura migliore. Allora tutto sommato, nonostante abbia dovuto togliere il vento dalla canzone del maggio, de andrè lancia un proprio messaggio di speranza per il futuro delle proteste e indica la direzione da seguire: uniti si vince. È uno slogan che sarà tra i più usati in futuro, come testimonia la canzone degli sham 69 “if the kids are united”, che afferma proprio l’impossibilità di dividere i ragazzi che restano uniti e che diventerà uno dei più celebri manifesti delle proteste.

Nella mia ora di libertà

Abbiamo cercato, senza pretese, di far apprezzare a chi è all’ascolto un album spesso osteggiato dalla critica, che non sempre si è espressa in maniera favorevole. La nostra opinione è che valga la pena ascoltarlo almeno una volta senza interruzioni, come ormai non si usa più tanto. Bisogna lasciarsi cullare dal cambiamento della voce di de andrè attraverso i meandri dei tormenti interiori di un individuo disperatamente aggrappato alla propria libertà, passando dal sogno alla vita reale insieme a lui e provando a condividere le sue aspirazioni.
     




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